Dice Kirwan:
“Per me il rugby è come la vita, devi sempre avere a destra e a sinistra delle persone che ti sostengano, che possano proteggerti quando cadi e devi rialzarti, poi viene il tuo turno di sostenere gli altri e devi farlo bene”. (in Bortolami e Cecinelli “Vita da capitano”, 2010, Baldini Castoldi Dalai, Milano)
Nulla di nuovo sotto il sole, diremmo. In fondo è una nozione che si inculca nella testa degli atleti (e dei genitori spettatori) sin dai primissimi anni del minirugby. È un principio codificato di questo sport, pilastro della stessa pratica sportiva dell’ovale, insieme con l’avanzamento ed alla pressione. Sostegno! Gridiamo sempre dagli spalti. Pensiamo ovviamente a quello che offre compagno a compagno nell’azione sul campo.
Kirwan peró ci dice che il sostegno è un valore che bisogna portarsi dietro anche quando l’arbitro ha fischiato la fine. Che diversamente lo condanneremmo ad essere un mero valore tecnico da considerare nel giudizio della prestazione di un giocatore. È invece un valore etico che ciascuno di noi dovrebbe sempre tutelare nella quotidianità – senza l’ovale tra le mani.
Con le parole di Kirwan in mente, mi è capitato di riguardare gli scatti catturati a Prato nella battaglia combattuta dai nostri under 16. E, come spesso mi accade, sono stato colpito da un’immagine che all’inizio non avevo considerato molto.
Non è la più spettacolare. Non è forse nemmeno quella tecnicamente meglio riuscita. Ce ne sono altre, cariche d’azione. Alcune decisamente epiche, merito non del fotografo, ma delle condizioni del campo. Con il fango pronto ad esaltare coraggio e spirito di sacrificio dei giovani giocatori delle due formazioni.
Eppure tra le tante, quella che oggi sceglierei come la mia preferita è un’immagine in cui azione non ce n’è. Ma che, come dicono quelli bravi, è carica di senso, che veicola con semplice immediatezza.
Sostituito al termine della prima frazione di gioco, il numero 11 torna in panchina. Dallo sguardo cogliamo che il ragazzo non è soddisfatto della sua prestazione. Forse è deluso di essere stato tolto dal campo, di non poter ancora offrire il suo apporto alla squadra. Ha ricevuto l’incoraggiamento dell’allenatore, ma non basta. Tiene gli occhi bassi e pensa forse a quella corsa che non ha superato l’avversario, a quel pallone che non ha portato in meta. Mentre il resto della squadra si disseta prima di tornare in campo, un suo compagno si stacca dal cerchio in ascolto dei suggerimenti dell’allenatore e si avvicina. Gli pianta gli occhi in faccia e lo costringe a tenere alta la testa.
Il fotografo ha il tempo di scattare una, due, tre volte. Quello che l’obiettivo cattura non è un fulminante avanzamento e neppure uno spettacolare placcaggio. È l’immagine del sostegno, quello più raro e nascosto, che si mostra a bordo campo e senza il pallone in gioco. Per una volta non parola astratta ma concreta manifestazione dello spirito di gruppo, del senso di essere squadra. Di una vittoria che non ha nulla a che vedere con le classifiche. È una storia che trascende il punteggio ed il risultato sportivo registrato da un referto arbitrale.
Ed è certamente una foto da ricordare.